martedì 2 luglio 2013

Flessicurezza #laflessibilitasicura

Dalla fine degli anni novanta, le Istituzioni Europee hanno iniziato a suggerire agli Stati Membri di riformare il mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e di mantenere (o in certi casi, introdurre) un sistema di protezione sociale efficace, per alleviare gli effetti negativi della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro.  
Nel 2000, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi Membri dell’Unione Europea, hanno definito la “Strategia di Lisbona”[1]con lo scopo di trasformare l’Unione Europea “nella più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010”.
La “flessicurezza” dei modelli sociali europei è stata individuata dall’Unione Europea come uno dei principali strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di “trasformazione” dell’Europa.
La stessa Commissione Europea definisce tre elementi essenziali all’implementazione della “flexicurity”:
·                     un sistema di contratti di lavoro flessibili;
·                     un sistema di protezione sociale universale;
·                     un sistema di formazione permanente in età adulta.
Ma cosa s’intende per flessibilità del mercato del lavoro? E’ un concetto evocato continuamente in modo indefinito, spesso erroneamente associato alla sola facilità di licenziamento e impiego.
Nella definizione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), sono inclusi cinque elementi che contribuiscono a rendere un mercato del lavoro flessibile:
1.                   flessibilità esterna, in altre parole la capacità di aumentare o ridurre il numero di lavoratori all’interno di un’impresa.  È tanto più elevata quanto minori sono i costi di un’assunzione o di un licenziamento e quanto minori sono i tempi necessari a eseguire l’aggiustamento nel personale impiegato;
2.                  flessibilità numerica interna, misura l’abilità dell’impresa di variare l’input lavoro senza licenziare/assumere lavoratori;
3.                  flessibilità funzionale, misura la capacità dell’impresa di riorganizzare i propri lavoratori su diverse mansioni, differenti luoghi di lavoro o differenti tipi di lavoro. È tanto più elevata quanto è facile effettuare turnover all’interno delle imprese;
4.                  flessibilità salariale che consiste nella capacità dei datori di lavoro di modulare il salario in relazione alle variazioni delle condizioni del mercato. È generalmente limitato là dove la contrattazione salariale avviene fra lavoratori fortemente sindacalizzati a livello centralizzato;
5.                  flessibilità di esternalizzazione, consiste nella capacità delle imprese di utilizzare lavoro fornito da lavoratori esterni all’impresa senza la necessità di instaurare nuovi rapporti di lavoro[2].
Tutte e cinque le componenti di flessibilità sopra indicate, sono utili a ottenere un mercato del lavoro flessibile e allo stesso tempo hanno caratteristiche di complementarietà e soprattutto di sostituibilità.
Qualsiasi riforma che vada a migliorare uno o più di questi aspetti contribuisce a rendere il mercato del lavoro più flessibile.  Ad esempio il “Pacchetto Treu”, che introdusse il lavoro temporaneo in Italia con la Legge n.196 del 1997 e la “Riforma Biagi”[3] (D.lgs n.276 del 2003, attuativo della Legge n.30 del 2003), hanno avuto l’effetto di un aumento della flessibilità numerica esterna. La detassazione degli straordinari di qualche anno fa doveva portare invece a una maggiore flessibilità numerica interna.



[1] Per “Strategia di Lisbona”, s’intende un programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo.
[2] Oecd, Employment Outlook, 2004.
[3] Dal nome del Ministro del Lavoro del primo Governo di Romano Prodi, il Senatore del Partito Democratico (PD), Prof. Tiziano Treu e dal nome del giuslavorista Prof. Marco Biagi.

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