Dalla fine degli
anni novanta, le Istituzioni Europee hanno iniziato a suggerire agli Stati Membri
di riformare il mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e di mantenere (o
in certi casi, introdurre) un sistema di protezione sociale efficace, per
alleviare gli effetti negativi della “flessibilizzazione” del mercato del lavoro.
Nel 2000, i Capi di
Stato e di Governo dei Paesi Membri dell’Unione Europea, hanno definito la “Strategia
di Lisbona”[1]con
lo scopo di trasformare l’Unione Europea “nella
più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” .
La “flessicurezza” dei modelli
sociali europei è stata individuata dall’Unione Europea come uno dei principali
strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di “trasformazione” dell’Europa.
La stessa
Commissione Europea definisce tre elementi essenziali all’implementazione della
“flexicurity”:
·
un sistema di contratti di lavoro
flessibili;
·
un sistema di protezione sociale
universale;
·
un sistema di formazione permanente
in età adulta.
Ma cosa s’intende
per flessibilità del mercato del lavoro? E’ un concetto evocato continuamente
in modo indefinito, spesso erroneamente associato alla sola facilità di
licenziamento e impiego.
Nella definizione
dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), sono inclusi
cinque elementi che contribuiscono a rendere un mercato del lavoro flessibile:
1.
flessibilità esterna, in altre parole la
capacità di aumentare o ridurre il numero di lavoratori all’interno di
un’impresa. È tanto più elevata quanto
minori sono i costi di un’assunzione o di un licenziamento e quanto minori sono
i tempi necessari a eseguire l’aggiustamento nel personale impiegato;
2.
flessibilità numerica interna, misura
l’abilità dell’impresa di variare l’input lavoro senza licenziare/assumere
lavoratori;
3.
flessibilità funzionale, misura la
capacità dell’impresa di riorganizzare i propri lavoratori su diverse mansioni,
differenti luoghi di lavoro o differenti tipi di lavoro. È tanto più elevata
quanto è facile effettuare turnover all’interno delle imprese;
4.
flessibilità salariale che consiste
nella capacità dei datori di lavoro di modulare il salario in relazione alle variazioni
delle condizioni del mercato. È generalmente limitato là dove la contrattazione
salariale avviene fra lavoratori fortemente sindacalizzati a livello
centralizzato;
5.
flessibilità di esternalizzazione,
consiste nella capacità delle imprese di utilizzare lavoro fornito da
lavoratori esterni all’impresa senza la necessità di instaurare nuovi rapporti
di lavoro[2].
Tutte e cinque le
componenti di flessibilità sopra indicate, sono utili a ottenere un mercato del
lavoro flessibile e allo stesso tempo hanno caratteristiche di complementarietà
e soprattutto di sostituibilità.
Qualsiasi riforma
che vada a migliorare uno o più di questi aspetti contribuisce a rendere il
mercato del lavoro più flessibile. Ad
esempio il “Pacchetto Treu”, che introdusse il lavoro temporaneo in Italia con
la Legge n.196 del 1997 e la “Riforma Biagi”[3]
(D.lgs n.276 del 2003, attuativo della Legge n.30 del 2003), hanno avuto
l’effetto di un aumento della flessibilità numerica esterna. La detassazione
degli straordinari di qualche anno fa doveva portare invece a una maggiore
flessibilità numerica interna.
[1] Per
“Strategia di Lisbona”, s’intende un programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e
di Governo.
[2] Oecd,
Employment Outlook, 2004.
[3] Dal nome del
Ministro del Lavoro del primo Governo di Romano Prodi, il Senatore del Partito
Democratico (PD), Prof. Tiziano Treu e dal nome del giuslavorista Prof. Marco
Biagi.
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