Il termine flessibilità[1], ha un’origine latina che nel suo significato originario, descrive la capacità delle cose di adattarsi facilmente.
Nell’economia dell’immateriale, si associa ai criteri di creatività, velocità e generazione di valore per gli azionisti e gli “stakeholders” interni ed esterni[2]. In un mercato che progredisce sempre più velocemente, resta, infatti, in competizione chi riesce a competere sul piano delle diversità, sviluppando le capacità creative.
In termini economici, ormai è diventato un elemento centrale dell’organizzazione del lavoro, in altre parole, una soluzione necessaria e indispensabile per acquisire o mantenere una posizione competitiva e accettabile nel mercato in cui si opera.
In entrambi i casi, la flessibilità è usata per recuperare efficienza e migliorare le performance delle organizzazioni, per gestire e superare l’attuale congiuntura economica e sociale.
Diventa quindi importante e doveroso, cercare di individuare una definizione che sia chiara e condivisa, in quanto, tutto ciò che c’è di positivo e negativo per quanto riguarda la flessibilità, non dipende solo dalle norme, ma anche dalla situazione di mercato in cui ci si trova ad operare.
Spesso l’utilizzo di strumenti per facilitare la flessibilità, può essere considerato come uno dei mezzi per incrementare l’occupazione. Secondo questa visione, le aziende, facilitate dall'esistenza di contratti poco vincolanti, sarebbero incentivate a richiedere costantemente al mercato del lavoro tutte quelle figure professionali di cui hanno bisogno in un determinato momento, senza essere costrette a tenerle sotto contratto oltre il dovuto. In questo modo, la domanda di occupazione sarebbe sbloccata e si produrrebbe un circolo virtuoso destinato a incrementare la richiesta. Tutto questo, ha incidenza sempre più sull’aspetto sociale, infatti, spesso i contratti flessibili sono classificati solo come strumento di risparmio da parte delle aziende e come uno strumento di crescita del precariato.
Il concetto di flessibilità è utilizzato sempre più spesso come sinonimo di precarietà, soprattutto quando sono rilevati fattori d’instabilità, come la mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro o la mancanza di un reddito sicuro col quale pianificare la propria vita presente e programmare il futuro.
In realtà a mio parere si tratta di due dimensioni completamente diverse.
Già lo stesso giuslavorista Marco Biagi, nel 2001 nel Libro Bianco[3] sul mercato del lavoro, tendeva a differenziare in maniera molto chiara i due concetti di flessibilità e precarietà, sostenendo che “un mercato del lavoro flessibile, deve anche migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale”.
In pratica la flessibilità si riferisce a un modo di organizzare il lavoro, la precarietà invece si riferisce all’insicurezza della vita legata e condizionata dalle condizioni di lavoro.
Si sono andate sviluppando quindi, due diverse aree di forme lavorative: da un lato il cosiddetto mercato del lavoro “standard”, caratterizzato da una forma di lavoro dipendente, da un orario a tempo pieno o “full time” e una assunzione, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato[4].
Parallelamente a questo, si è creato un nuovo mercato “non standard” o “atipico”, caratterizzato da una diversità rispetto a una condizione di tipicità.
A questo carattere non standard si è deciso di assegnare il nome di flessibilità, facendo cosi riferimento a una diversa gamma di soluzioni contrattuali, ognuna con specifiche proprietà e aspetti distintivi.
[1] Il termine latino “flexibilitas”, è legato alla constatazione che i rami di un albero, anche se possono essere piegati dal vento, dopo un po’ tornano nella posizione di partenza. Flessibilità indica, sia la capacità di resistere alle pressioni esterne, che la capacità di tornare alla situazione precedente.
[2] Rullani, 2000.
[3] Libro Bianco sul mercato del lavoro: proposte per una società attiva e per una lavoro di qualità, Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, ottobre 2001.
[4] Con il comma 39 dell’art. 1 Legge n. 247 del 2007, il Legislatore ha introdotto un nuovo comma in cui si precisa che “la forma contrattuale ordinaria del nostro ordinamento, è costituita dal contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Anche la Direttiva Europea 99/70/CE, chiarisce che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”, con conseguente necessità di apporre un termine solo ove vi siano “condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”. Da ultimo prima il Disegno di Legge recante “disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” del 5 aprile 2012 , poi la Legge n. 92 del 28 giugno 2012 , identificano il contratto di lavoro a tempo indeterminato, come “contratto dominante” e forma comune dei rapporti di lavoro. La prima modifica della Legge n.92, è la riscrittura del comma 01 dell’art. 1 del D.Lgs 368/2001 per cui “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza prevalente, ritengono che il contratto a termine, anche successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs n.368 del 2001, rappresenti un’ipotesi eccezionale, e non alternativa, al contratto a tempo indeterminato.
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