giovedì 20 giugno 2013

Precarietà è l'altra faccia della medaglia di una flessibilità cattiva

La precarietà può essere considerata, l'altra faccia della medaglia di una flessibilità cattiva e mal usata. Molti studi ci dimostrano che le imprese che hanno maggiormente utilizzato la flessibilità cattiva sono quelle che in questi ultimi dieci anni sono cresciute meno. L’idea è quindi quella di preservare la flessibilità buona e ostacolare quella che ha portato alla precarietà. 
Già lo stesso giuslavorista Marco Biagi, nel 2001 nel Libro Bianco sul mercato del lavoro, tendeva a differenziare in maniera molto chiara i due concetti di flessibilità e precarietà, sostenendo che “un mercato del lavoro flessibile, deve anche migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale”.
In pratica la flessibilità si riferisce a un modo di organizzare il lavoro, la precarietà invece si riferisce all’insicurezza della vita legata e condizionata dalle condizioni di lavoro. Allora dobbiamo essere in grado di distinguere tra flessibilità buona e flessibilità cattiva. Nella flessibilità buona possono essere inseriti, il contratto di apprendistato e il contratto di  somministrazione di lavoro, mentre in quella cattiva, tutto il resto dei contratti atipici, tra cui il lavoro a progetto, le “false partite Iva”, le associazioni in partecipazione e altre forme di collaborazioni autonome fittizie che, impropriamente utilizzate, nascondevano in realtà dei veri e propri contratti di lavoro subordinato. Questi abusi, purtroppo, hanno da sempre contribuito all’erronea percezione della flessibilità come sinonimo di precarietà.
La “ratio” che sta alla base di questa sottoclassificazione è che, il contratto di apprendistato e quello di somministrazione di lavoro, contribuiscono a trasformare la flessibilità in entrata dei contratti temporanei, in un contratto stabile nel tempo.

Anche le Segreterie Nazionali delle tre Confederazioni sindacali, CGIL, CISL e UIL in un loro documento congiunto di gennaio 2012, chiesero un intervento forte e deciso al Governo, per la semplificazione e la riduzione delle tipologie di lavoro flessibile che confluiscano in forme contrattuali, che siano rivolte verso la stabilizzazione.  

Il lavoro somministrato è così, in via generale, “un modello che potrebbe riassorbire molte delle altre tipologie contrattuali atipiche esistenti”, così che il lavoratore somministrato, non debba più sentirsi un “precario” ma possa, a ragione, ritenersi una “risorsa” richiesta dalle aziende che necessitano delle sue qualificate prestazioni lavorative.

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