La precarietà può
essere considerata, l'altra faccia della medaglia di una flessibilità cattiva e
mal usata. Molti studi ci dimostrano che le
imprese che hanno maggiormente utilizzato la flessibilità cattiva sono quelle
che in questi ultimi dieci anni sono cresciute meno. L’idea è quindi quella di
preservare la flessibilità buona e ostacolare quella che ha portato alla
precarietà.
Già lo stesso
giuslavorista Marco Biagi, nel 2001 nel Libro Bianco sul mercato del
lavoro, tendeva a differenziare in maniera molto chiara i due concetti di
flessibilità e precarietà, sostenendo che “un
mercato del lavoro flessibile, deve anche migliorare la qualità, oltre che la
quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e
desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di
cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi rimangano
intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale”.
In pratica la
flessibilità si riferisce a un modo di organizzare il lavoro, la precarietà
invece si riferisce all’insicurezza della vita legata e condizionata dalle
condizioni di lavoro. Allora dobbiamo essere in grado di distinguere tra
flessibilità buona e flessibilità cattiva. Nella flessibilità buona possono
essere inseriti, il contratto di apprendistato e il contratto di
somministrazione di lavoro, mentre in quella cattiva, tutto il resto dei
contratti atipici, tra cui il lavoro a progetto, le “false partite Iva”, le
associazioni in partecipazione e altre forme di collaborazioni autonome
fittizie che, impropriamente utilizzate, nascondevano in realtà dei veri e
propri contratti di lavoro subordinato. Questi abusi, purtroppo, hanno da
sempre contribuito all’erronea percezione della flessibilità come sinonimo di
precarietà.
La “ratio” che sta
alla base di questa sottoclassificazione è che, il contratto di apprendistato e
quello di somministrazione di lavoro, contribuiscono a trasformare la
flessibilità in entrata dei contratti temporanei, in un contratto stabile nel
tempo.
Anche le Segreterie
Nazionali delle tre Confederazioni sindacali, CGIL, CISL e
UIL in un loro documento congiunto di gennaio 2012, chiesero un intervento
forte e deciso al Governo, per la semplificazione e la riduzione delle
tipologie di lavoro flessibile che confluiscano in forme contrattuali, che
siano rivolte verso la stabilizzazione.
Il lavoro somministrato è così, in via
generale, “un modello che
potrebbe riassorbire molte delle altre tipologie contrattuali atipiche
esistenti”, così che il
lavoratore somministrato, non debba più sentirsi un “precario” ma possa, a
ragione, ritenersi una “risorsa”
richiesta dalle aziende che necessitano delle sue qualificate prestazioni
lavorative.
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