Il socialismo propugnato in questo Paese da Julius K. Nyerere, leader indiscusso del TANU il partito unico della Tanzania, è assai diverso dal tipo di socialismo realizzato in certi Paesi europei e sembra avvicinarsi di più, specie per la prevalenza data al settore agricolo nei confronti degli altri campi dell’economia, al modello di sviluppo cinese. Il dato fondamentale da cui parte il programma socialista in Tanzania è che non è possibile una reale indipendenza per uno stato africano se non si riesce a fare a meno dei capitali europei: e l’unico modo per non far crollare un’economia già spaventosamente povera come quella della Tanzania in una crisi ancor più grave, è quello di basarsi sulle risorse interne del Paese. Ora, l’unico tipo di risorse di cui può disporre oggi la Tanzania è il settore dell’agricoltura, anche considerando il fatto che su una popolazione di 13 milioni di abitanti solo il 5% vive nelle aree urbane, mentre il resto lavora nelle regioni agricole.
Il punto fondamentale, quindi, del socialismo della Tanzania, è quello di creare villaggi comunitari, auto-governativi, che nel gergo politico locale, sono definiti “ujamaa villages”.
Questi villaggi ujamaa (ujamaa significa famiglia e rende l’idea di un lavoro comunitario proprio delle tradizionali famiglie africane) sono l’unico rimedio che Nyerere e il governo socialista hanno trovato all’estrema dispersione della popolazione che vive attualmente ancora in migliaia di capanne isolate, distanti decine di miglia l’una dall’altra, dispersione che rende praticamente impossibile la realizzazione di strutture sociali come scuole, ospedali, etc., per la mancanza di punti di aggregazione umana a cui fare riferimento.
Allo stato attuale della situazione, su tredici milioni di tanzani solo un milione vive in villaggi ujamaa, e questo ritardo ha preoccupato il governo tanto da indurlo ad accelerare il processo di decentramento politico-amministrativo a livello regionale, onde permettere alle varie aree di disporre degli strumenti idonei per realizzare questo nuovo tipo di socialismo agricolo. Ma è chiaro che la Tanzania oggi ancora non può sopravvivere senza aiuti esterni che anche in linea di principio non rifiuta nella misura in cui sono utili allo sviluppo del Paese e non creano nuove forme di sfruttamento neo-capitalistico. Ad esempio la Repubblica Popolare Cinese ha inviato centinaia di tecnici e operai qualificati per la costruzione di una ferrovia che collegherà la Tanzania con lo Zambia; così pure gli americani stanno costruendo per il governo varie arterie stradali con il contributo in molti casi di imprese italiane. I mezzi meccanici in agricoltura e nei trasporti sono ancora d’importazione tedesca e giapponese prevalentemente, mentre nel settore sanitario ancora massiccia è la presenza occidentale.
Accanto a questi aspetti deficienti nella situazione della Tanzania non è difficile riscontrare segni indubbi di progresso socialista: la nazionalizzazione della banche, avvenuta nel 1968, non ha provocato quel collasso che si riteneva quando il Regno Unito ritirò sdegnosamente i propri funzionari sperando di ridurre così all’obbedienza questo Paese ribelle. In altri settori, come in quello dell’istruzione e del commercio, è ormai completo il processo di africanizzazione e di nazionalizzazione: le scuole sono state totalmente sottratte alle organizzazioni missionarie mentre il commercio è stato preso in mano dallo State Trading Corporation che ha così completamente soppiantato la ricca borghesia indiana da decenni monopolizzante questo settore-chiave.
In Tanzania la Chiesa cattolica si è schierata senza riserve a favore del progetto socialista di Nyerere, aiutando lo stesso governo a debellare quelle organizzazioni missionarie che ancora agivano con metodi di paternalismo neo-colonialista e che frenavano il progetto di trasformazione socialista di questo Paese africano.
Uno degli ostacoli più grossi (comune d’altra parte a tutti gli stati africani) è ancora quello del tribalismo, in quanto gruppi tribali più ricchi come quelli che vivono sulle montagne del Kilimajiaro sono restii a quel tipo di socialismo agrario che il governo sta costruendo in tutto il Paese. Ma in questo contesto difficile perché forti sono ancora le influenze nefaste del colonialismo e del neo-colonialismo, un ruolo importante è affidato al TANU (Tanzanian Africa National Union) che sta portando tra le masse contadine del Paese un’efficace discorso di propaganda e persuasione (Nyerere è infatti contrario ad ogni tipo di socialismo basato sulla coercizione) cercando di far comprendere che solo la “self-reliance policy”, la politica dell’auto-rilancio, può permettere al Paese un progresso economico che consenta l’indipendenza reale del Paese.
La politica dell’autorilancio non significa certo autarchia: significa fare invece della Tanzania un modello di stato socialista africano che possa giocare un ruolo dinamico nel processo di indipendenza e unità africana. La Africa Revolution Week (la settimana per la rivoluzione africana) che è stata celebrata in tutti i Paesi democratici africani ha infatti avuto nella Tanzania uno degli Stati più interessanti sotto l’aspetto di una via africana al socialismo e all’indipendenza.
Misure come il progressivo evacuamento dal Paese di tutti gli occidentali e asiatici non residenti, sono senza dubbio indispensabili per il progresso della Tanzania: il problema è nella possibilità reale di questo processo di africanizzazione che deve fondarsi su una sostituzione di quadri stranieri con africani in grado di prender il loro posto nei vari settori.
Su questo punto si gioca senza dubbio il successo e il fallimento del programma di Nyerere che comunque ha dalla sua parte quasi la totalità della popolazione che vede in questa strada l’unico mezzo per affrancarsi da un’endemica povertà.
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