Al lavoro temporaneo
gli Stati Europei, si sono avvicinati sin dal secondo dopoguerra, anche se
spesso in modo distaccato e alquanto scettico e ostacolati dalle varie forze
sindacali poco propense ad accettare una forma di occupazione temporanea, perché
temevano che potesse portare solo a una sovrabbondanza di posti di lavoro, a
fronte però di una precarietà istituzionalmente introdotta dal lavoro
temporaneo.
Solo negli anni settanta, quando ci
si rese conto che in realtà il collocamento pubblico non era più in grado di
far fronte a un mercato del lavoro sempre più alla ricerca di soluzioni
flessibili, la parte sindacale e le forze politiche più scettiche si spinsero verso
questo strumento contrattuale.
In Europa con
l’espressione lavoro temporaneo si faceva riferimento a contratti
caratterizzati dalla temporaneità della prestazione di lavoro effettuata in
favore di un certo soggetto.
Tra le tipologie
contrattuali utilizzate si poteva anche inserire il cosiddetto rapporto di
lavoro interinale che prevedeva una relazione a tre, fondata su un doppio
rapporto contrattuale in base al quale un’agenzia di lavoro interinale (impresa
fornitrice) inviava temporaneamente un lavoratore, da essa stessa assunto, presso
un terzo soggetto utilizzatore (impresa cliente o utilizzatrice), per
effettuare una determinata attività lavorativa sotto la direzione e il
controllo di quest’ultima.
C’è da dire che non
esiste un unico modello vincente di legge sul lavoro temporaneo, in quanto ogni
legge deve essere considerata nell’ambito dello Stato in cui viene promulgata,
tenendo conto delle influenze e pressioni che l’hanno generata e per i
risultati che genera all’interno del sistema.
La Germania, la cui
penetrazione sull’occupazione totale ha raggiunto nel 2010 il 2%, ha ad esempio
la normativa ritenuta più severa.
Altri Stati, come
l’Irlanda e il Regno Unito[1],
hanno normative più liberali che non subordinano neppure l’attività delle
società di fornitura ad autorizzazioni governative.
Tra l’estremo rigido
costituito dalla Germania e quello più liberale del Regno Unito, ci sono gli
ordinamenti di Francia, Spagna e Italia che prevedono autorizzazioni
ministeriali per le società di fornitura, rilasciate sulla base di determinati requisiti,
la parità di trattamento retributivo e
previdenziale tra i lavoratori e un fondo per la formazione dei lavoratori
temporanei. Dall’analisi sulla legislazione vigente nei diversi Paesi Europei
risulta però evidente che, a fronte di numerose differenze, esiste un unico
elemento comune a tutti: la presenza di una relazione triangolare che lega il
lavoratore, l’agenzia per il lavoro e
l’impresa utilizzatrice.
In Italia il processo di
“flessibilizzazione” del mercato del lavoro è iniziato meno di trenta anni fa, nel
1984.
Tutto ebbe inizio
con la Legge n.863 del 1984, nella quale furono allargati i criteri per il
part-time, introdotti i contratti di solidarietà e i contratti di
formazione-lavoro.
L’introduzione in
Italia del rapporto di lavoro a tempo parziale, risale agli anni intorno al
1980 ed avvenne in alcuni contratti
collettivi di lavoro, dapprima nel settore del commercio e terziario e
successivamente nel settore elettrico, bancario e tessile.
La materia fu quindi
inserita nell’Accordo Interconfederale del 22 gennaio 1983 e nel successivo Protocollo
del 14 febbraio
1984 .
E’interessante
notare come la Legge del 1984, recasse il titolo “misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”.
Si trattava di un pacchetto di norme varate per fronteggiare una delle consuete
“emergenze economiche e occupazionali”.
Seguì poi nel 1987,
la Legge n.56 che diede la possibilità di estendere il contratto a termine a
tutti i settori.
La Legge n.299 del 1994, ha esteso l’uso
della mobilità e dei contratti di formazione-lavoro e disciplinato i contratti
di solidarietà.
La Legge n.335 del 1995 introduceva il
fondo dell’ INPS di “gestione separata” per i lavoratori parasubordinati e i
collaboratori.
Nel frattempo,
l’ennesimo Accordo Concertativo tra le parti sociali, quello del 24 settembre 1996 ,
denominato “accordo per il lavoro”, consentì, l’anno seguente, l’approvazione
della legge che più di tutte sancisce in modo definitivo, il via libera alla
flessibilità totale della domanda di lavoro da parte delle imprese, la Legge n.196
del 24 giugno
1997 , denominata “Pacchetto Treu”.
A questa Legge nel 2001,
segue il D.Lgs n.368, che prevede la liberalizzazione dei contratti di lavoro
dipendente a termine, in recepimento della direttiva 1990/70/CE.
Nel 2003 arriva la
“Legge Biagi ” con l’introduzione di nuovi contratti atipici
(job sharing, job on call, staff leasing), la trasformazione dei co.co.co. in
“collaboratori a progetto”, l’introduzione del “contratto di inserimento”, il
nuovo contratto di apprendistato, la riforma del part-time ed infine la
liberalizzazione dei servizi all’impiego.
Nel 2007 arriva il “Protocollo sul Welfare” (Legge n. 247) che prevede un
limite per la stipula dei contratti a termine a 36 mesi (con eventuale deroga),
l’aumento contribuzione per parasubordinati, ed infine l’abolizione del job on
call e dello staff leasing.
Gli ultimi quattro interventi legislativi, sono il “pacchetto lavoro”
della Legge finanziaria 2010, il Testo Unico sull’apprendistato (D.Lgs n.167
del 2011) e il D.Lgs n.24 del 2012 che ha recepito la già citata Direttiva 104
del 2008 e la Riforma Fornero, Legge n.92 del 2012.
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