martedì 9 luglio 2013

Rapporto statistico tra tassi di occupazione e indice Epl #laflessibilitasicura

Ci si domanda se le politiche di flessibilità in entrata al mercato del lavoro, abbiano almeno contribuito alla riduzione del tasso di disoccupazione e all’aumento del tasso di occupazione.
L’analisi dei dati impedisce di stabilire un qualsiasi rapporto di causa ed effetto tra, l’aumento della precarietà e il miglioramento degli indici di occupazione e disoccupazione e, l’indice del grado di protezione dei lavoratori calcolato dall’Ocse, detto EPL (Employment Protection Legislation Index) che è considerato una buona approssimazione del livello d’inflessibilità del mercato del lavoro.
Analizzando il rapporto statistico tra i tassi di disoccupazione e di occupazione e l’indice EPL si può concludere che non sussiste alcuna correlazione statistica significativa tra queste variabili.  Infatti, l’EPL dal 1998 al 2003 si riduce nella maggioranza dei Paesi, ma nel medesimo periodo i tassi di occupazione e disoccupazione fanno registrare gli andamenti più disparati, in molti casi addirittura opposti a quelli auspicati dai fautori della flessibilità. Esiste un’unica eccezione, almeno un caso in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro si è verificata in concomitanza con un miglioramento dei tassi di occupazione e disoccupazione: questa eccezione è rappresentata dall’Italia.
Dal “Pacchetto Treu” alla “Legge Biagi”, le riforme del mercato del lavoro attuate nel nostro Paese, hanno determinato un vero e proprio crollo del nostro indice EPL di protezione dei lavoratori. Ora, bisogna, in effetti, riconoscere che questa picchiata dell’indice EPL italiano si è verificata in concomitanza con un cospicuo miglioramento dei tassi ufficiali di occupazione e disoccupazione. Infatti, se i fautori della flessibilità in entrata avessero ragione, la forte riduzione dell’indice EPL italiano rispetto alla media europea dovrebbe aver generato dei risultati occupazionali notevolmente migliori della media dell’Unione.
Accade invece che tra il 1998 e il 2006, il nostro tasso di occupazione cresce pressoché in linea con la media europea, e dal 1993 addirittura cresce di meno. Se si guarda al tasso di disoccupazione nazionale, si scopre subito che la sua buona performance è dipesa in misura rilevante da un fenomeno tutt’altro che positivo, consistente nella crescita dei cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, cioè chi rinuncia a cercare un lavoro dopo vari tentativi falliti.
Il modesto risultato dell’Italia si spiega col fatto che nel nostro paese gli “scoraggiati” o “inattivi”, sono cresciuti molto più della media europea, e questo ha evidentemente comportato una fuoriuscita di persone dalla popolazione attiva.
Le persone che rinunciano a cercare un lavoro, infatti, fuoriescono sia dal novero dei disoccupati sia dalla popolazione attiva, cioè sia dal numeratore sia dal denominatore del tasso di disoccupazione. L’effetto aritmetico è che, essendo il numero dei disoccupati solo una parte relativamente piccola della popolazione attiva, l’uscita degli scoraggiati pesa di più sul numeratore e quindi il tasso di disoccupazione si riduce. Se invece gli scoraggiati fossero contemplati nel calcolo del tasso di disoccupazione, questo sarebbe assai peggiore in Italia che in Europa, sia nei livelli sia nella sua dinamica.
Altro dato importante riguarda i cassaintegrati; questi, sono “de facto” disoccupati ma non per l’Istat, in quanto non dichiarano di cercare lavoro e beneficiano di un sussidio statale.
Il passaggio dal concetto classico di disoccupazione a questo concetto allargato, che tiene conto della disoccupazione occultata dalla cassa integrazione e dello scoraggiamento, ci consente di costruire un tasso di disoccupazione più aderente alla realtà.  
Stante queste considerazioni, la domanda che ci si pone è questa: a cosa è mai servita la “flessibilizzazione” del mercato del lavoro di questi anni?  

La risposta per molti potrebbe essere semplice: a indebolire i lavoratori e quindi a ridurre i salari. Se c’è, infatti, una correlazione robusta, è quella che sussiste tra EPL e crescita salariale: più basso è l’indice di protezione dei lavoratori, più i salari arrancano. Nelle prossime settimane e nei prossimi posts vedremo di rispondere.


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