venerdì 4 gennaio 2013

Come siamo arrivati alla Riforma del mercato del lavoro? 2/2

Ai primi di agosto del 2011, la Banca Centrale Europea (Bce), inviò al Governo Italiano una lettera, con la quale sollecitava alcune misure incisive finalizzate a riattivare la nostra crescita economica. Fra queste, il decentramento del nostro sistema della contrattazione collettiva, la flessibilizzazione della nostra disciplina dei licenziamenti, e infine, l’introduzione di tutele economiche e professionali e un’assistenza effettiva e intensiva nel mercato del lavoro a favore dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.
In particolare si faceva riferimento “all'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. Dovrebbe essere adottata un’accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.
A metà agosto, in risposta a questa sollecitazione della Banca Centrale Europea, il Governo Italiano approvò una nuova legge che ha drasticamente incentivato il ruolo della contrattazione aziendale.
Più precisamente la nuova norma (l’articolo 8 del Decreto Legge n. 138 del 2011, convertito in Legge n. 148 del 2011) prevede che ogni contratto aziendale o territoriale firmato da una o più organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, nell’ambito dell’ampissimo novero di fattispecie previste dalla norma e nel rispetto di presupposti funzionali altrettanto definiti, può derogare non solo ad ogni contratto collettivo nazionale, ma anche all’intera legislazione nazionale del lavoro, inclusa la disciplina dei licenziamenti ed escluse solo le norme costituzionali e quelle contenute nelle convenzioni internazionali e nelle direttive europee.
Grazie a questa norma, ogni imprenditore “innovatore”, se ha di fronte rappresentanti sindacali lungimiranti, può inserire nella propria azienda un diritto del lavoro snello, basato su di una coniugazione della massima flessibilità delle strutture produttive, con la massima sicurezza del lavoratore.
La lettera con cui nell’ottobre del 2011, il Governo Berlusconi, rispose alle richieste che ci pervenivano dalla Commissione Europea in tema di lavoro e licenziamenti, avrebbe potuto costituire un punto di partenza costruttivo per arrivare all’obiettivo di una nuova rete di assicurazione e protezione sociale, ma ha invece generato una risposta ansiogena e fuori controllo da parte dei cittadini e delle principali sigle sindacali.
La stessa sorte è toccata alla proposta di riforma del lavoro del Governo Monti, nel marzo del 2012 e al conseguente Disegno di Legge del 6 Aprile 2012.
Questo perché i mass media, nei giorni successivi alla lettera, alla proposta di riforma e al Disegno di Legge, hanno lanciato alla pubblica opinione un motto, per molti incomprensibile e fuori da ogni logica, come “licenziare per assumere”.
Sarebbe stato invece necessario e responsabile, con l’accordo delle parti sociali e di tutti i partiti politici che appoggiavano il Governo, presentare un progetto organico e strutturale di riforma che si configurasse come una reale proposta di modernizzazione rivolta al Paese, che avrebbe potuto contribuire al rilancio dell’economia e all’attrazione d’investimenti dall’estero, attraverso quella flessibilità in entrata ed in uscita che ci chiede l’Europa.  Un nuovo modo di intendere il lavoro come elemento dinamico teso al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dei sistemi produttivi, il tutto in una rinnovata idea di competitività, questo perché la piaga italiana non è l’uso delle tipologie atipiche ma il sommerso.
Convincere, l’opinione pubblica, della necessità di contrastare questa nuova idea di lavoro, in omaggio alla difesa dell’art.1 del nostro Dettato Costituzionale, è un’impresa complicata. Appare addirittura impossibile quando le deroghe richieste dall’Unione Europea (che ci chiede da anni di “dinamizzare” il nostro mercato del lavoro) e dal Governo, mirano a combattere fenomeni di abuso di contratti senza alcuna tutela, in uno Stato come quello Italiano, cronicamente piagato dall’assenza di lavoro, dove l’alternativa occupazionale è il lavoro nero sottopagato, senza alcun diritto e senza sindacato, nel tessuto malato dell’economia sommersa.

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