venerdì 19 dicembre 2014

Le prime pagine de "La mia seconda pelle"

“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che, cadendo, passa da un piano all'altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: "Fin qui tutto bene. Fin qui tutto bene. Fin qui, tutto bene." Il problema non è mai la caduta, ma l'atterraggio.”
Era l’ennesima volta che spingevo giù nel mio vecchio videoregistratore Panasonic, il nastro ormai consumato de “L’Odio” e continuavo ogni giorno a svegliarmi con la convinzione che, prima o poi, sarebbe arrivato il giorno in cui tutto sarebbe ritornato come prima.
Mi alzavo, infilando titubante le mie ciabatte, ma poi mi ritrovavo di nuovo seduto sul letto con la testa tra le mani e, la speranza che la mia vita potesse essere diversa, s’infrangeva bruscamente contro una parete bianca di cemento armato.
Ero troppo stanco per dormire e troppo a pezzi per stare sveglio.
Avevo la sensazione di essere come una mosca che, golosa degli avanzi di un pasto, entrava dentro una casa dalla finestra spalancata e, dopo essersi furtivamente saziata, cercava la via d’uscita, ma ogni volta si schiantava contro il vetro della finestra della cucina che, nel frattempo, era stata chiusa dai padroni di casa.
Lo scontro contro un freddo pilone di cemento armato mi riportava alla realtà e capivo che mai più nulla sarebbe stato come prima: ero un dipendente, per la gente semplicemente un “tossico”.
Ne avevo bisogno per alzarmi dal letto, per prepararmi la prima colazione, per ridere con gli amici, per farmi coraggio, per prendere i mezzi pubblici, per essere normale al lavoro, per fare l’amore con la mia ragazza e per sopravvivere ad una vita che si stava dissolvendo rapidamente tra le mie mani.
Mi sentivo come immerso in un oceano di ortiche; un sottile filo spinato, invalicabile, come quello che circonda le mura delle vecchie grigie caserme, mi separava dal resto del mondo.
Ormai ero consapevole di non essere più libero. Cadendo da quel palazzo di cinquanta piani e pensando di potermi salvare, avevo scelto di essere indipendente, ma allo stesso tempo avevo deciso di non scegliere la vita: quelle sostanze, che di stupefacente non avevano nulla, avevano vinto. Ero dipendente chimicamente.

Ricordo come se fosse ora quando Daniele, il mio compagno di banco di ragioneria, mi passò la prima volta una canna dicendomi: “Questa è roba leggera, fatti un tiro, ti fai due risate e poi andiamo a scuola.”

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