“Questa è la storia di un uomo che cade
da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che, cadendo, passa da un piano
all'altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: "Fin qui tutto bene. Fin
qui tutto bene. Fin qui, tutto bene." Il problema non è mai la caduta, ma
l'atterraggio.”
Era
l’ennesima volta che spingevo giù nel mio vecchio videoregistratore Panasonic, il
nastro ormai consumato de “L’Odio” e continuavo ogni giorno a svegliarmi con la
convinzione che, prima o poi, sarebbe arrivato il giorno in cui tutto sarebbe
ritornato come prima.
Mi
alzavo, infilando titubante le mie ciabatte, ma poi mi ritrovavo di nuovo seduto sul letto con
la testa tra le mani e, la speranza che la mia vita potesse essere diversa,
s’infrangeva bruscamente contro una parete bianca di cemento armato.
Ero
troppo stanco per dormire e troppo a pezzi per stare sveglio.
Avevo
la sensazione di essere come una mosca che, golosa degli avanzi di un pasto,
entrava dentro una casa dalla finestra spalancata e, dopo essersi furtivamente
saziata, cercava la via d’uscita, ma ogni volta si schiantava contro il vetro
della finestra della cucina che, nel frattempo, era stata chiusa dai padroni di
casa.
Lo
scontro contro un freddo pilone di cemento armato mi riportava alla realtà e
capivo che mai più nulla sarebbe stato come prima: ero un dipendente, per la
gente semplicemente un “tossico”.
Ne
avevo bisogno per alzarmi dal letto, per prepararmi la prima colazione, per
ridere con gli amici, per farmi coraggio, per prendere i mezzi pubblici, per
essere normale al lavoro, per fare l’amore con la mia ragazza e per sopravvivere
ad una vita che si stava dissolvendo rapidamente tra le mie mani.
Mi
sentivo come immerso in un oceano di ortiche; un sottile filo spinato,
invalicabile, come quello che circonda le mura delle vecchie grigie caserme, mi
separava dal resto del mondo.
Ormai
ero consapevole di non essere più libero. Cadendo da quel palazzo di cinquanta
piani e pensando di potermi salvare, avevo scelto di essere indipendente, ma
allo stesso tempo avevo deciso di non scegliere la vita: quelle sostanze, che
di stupefacente non avevano nulla, avevano vinto. Ero dipendente chimicamente.
Ricordo
come se fosse ora quando Daniele, il mio compagno di banco di ragioneria, mi
passò la prima volta una canna dicendomi: “Questa
è roba leggera, fatti un tiro, ti fai due risate e poi andiamo a scuola.”
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