Mi alzavo, infilando titubante le mie ciabatte, ma poi mi
ritrovavo di nuovo
seduto sul letto con la testa tra le mani e, la speranza che la mia vita
potesse essere diversa, s’infrangeva bruscamente contro una parete bianca di
cemento armato.
Ero troppo stanco per dormire e troppo a pezzi per stare
sveglio.
Avevo la sensazione di essere come una mosca che, golosa
degli avanzi di un pasto, entrava dentro una casa dalla finestra spalancata e,
dopo essersi furtivamente saziata, cercava la via d’uscita, ma ogni volta si
schiantava contro il vetro della finestra della cucina che, nel frattempo, era
stata chiusa dai padroni di casa.
Lo scontro contro un freddo pilone di cemento armato mi
riportava alla realtà e capivo che mai più nulla sarebbe stato come prima: ero
un dipendente, per la gente semplicemente un “tossico”.
Ne avevo bisogno per alzarmi dal letto, per prepararmi la
prima colazione, per ridere con gli amici, per farmi coraggio, per prendere i
mezzi pubblici, per essere normale al lavoro, per fare l’amore con la mia ragazza
e per sopravvivere ad una vita che si stava dissolvendo rapidamente tra le mie
mani.
Mi sentivo come immerso in un oceano di ortiche; un sottile
filo spinato, invalicabile, come quello che circonda le mura delle vecchie
grigie caserme, mi separava dal resto del mondo.
Ormai ero consapevole di non
essere più libero.
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